Appunti di viaggio

Fabrizio_MartaLiberi di Muoversi ha il piacere di pubblicare questo guest post di Fabrizio Marta. Blogger giramondo, Fabrizio racconta i suoi viaggi su rotellando.vanityfair.it, con lo scopo di avvicinare al viaggio chi ha problemi di mobilità e sensibilizzare la collettività al problema delle barriere architettoniche e culturali. Fabrizio ha sposato con entusiasmo la nostra causa e noi siamo felici di ospitarlo qui.

Qualche mese, fa mentre giocherellavo con Twitter, mi sono imbattuto nell’account di “Liberi di Muoversi” e di getto ho iniziato a seguirlo. Il motivo? Mi aveva portato indietro nel tempo, quando feci il mio primo viaggio da solo. Avevo 25 anni, una gran voglia di dimostrare a me stesso e agli altri, che ancora mi è rimasta, che potevo viaggiare ed essere come gli altri e soprattutto cercare di capire quali erano i miei limiti. Scelsi un luogo che sulla carta, già allora, era il paradiso delle rotelle e dei rotellanti: la California, gli USA.

Con la scusa d’imparare l’inglese (infatti rimase solo una scusa) partii per Los Angeles, rimasi in un campus per un mese e poi feci il giro della west coast con degli amici. Fu il primo mese che trascorsi da solo a Los Angeles a farmi ammalare di “viaggite” e soprattutto a farmi scoprire la “libertà di muoversi”.

Già sino ad allora l’avevo immaginata e sperata ma mai vissuta. E quando tornai a casa, cercai di far capire l’emozione che avevo provato a vivere libero, ma con pochi risultati: chi è abituato ad esserlo fatica a comprendere, chi non lo è può solo fantasticare di esserlo.

La libertà di muoversi è alzarsi al mattino e decidere dove andare a fare shopping, senza dover pensare se quella via o quel negozio sono accessibili; è entrare in un negozio quando si vede una bella maglia in vetrina e non dover rinunciare perché ci sono degli scalini; è non dover frequentare gli stessi posti solo perché sono comodi ma anche perché ci piacciono. Libertà di muoversi significa non dover telefonare per sapere se quel ristorante ha le scale, ma poterci andare senza alcun pensiero al riguardo, come tutti del resto.

Libertà di muoversi è fissare un appuntamento con un amico, con la fidanzata, con il collega dove ci pare e piace e non decidere dando la priorità a scalini o rampe. È andare a spedire una raccomandata nell’ufficio postale più vicino e non in quello più accessibile, ma soprattutto la libertà di fare da soli senza l’aiuto di nessuno, in piena libertà. Libertà di essere autonomi. E di poter pensare a quello che vogliamo e non vogliamo, a quello che dobbiamo e non dobbiamo fare e, anche, dove e con chi farlo.

Lì, in California, per la prima volta mi sono sentito “libero” di fare e di andare, di alzarmi al mattino, prendere un autobus e fare shopping, uscire la sera e andare per locali. Potevo andarci da solo, starci quanto tempo volevo, muovermi come volevo. Mi sono sentito per la prima volta un uomo libero, e, quando si assaggia la libertà è dura tornare indietro! E con questo desiderio di “libertà di muoversi” è iniziata la mia voglia di viaggiare, da solo, tutte le volte che potevo. E così, ho iniziato a sentirmi libero in Australia, in Sudafrica, negli States e in gran parte dell’Europa; e questa libertà mi ha portato a documentare le mie esperienze, insieme al fotografo Vito Raho, su rotellando.vanityfair.it e poi su www.rotellando.it, un progetto multimediale (fotografico e video) nato per raccontare viaggi e storie di “normale diversità”.

Con Rotellando, quest’anno ho scoperto due Paesi che hanno molto da insegnarci sulla libertà di muoversi: il Sudafrica e l’Irlanda.

Il Sudafrica che, pur dovendo abbattere molte di quelle barriere mentali consolidate nel tempo, è abituato alle diversità e ha una spiccata sensibilità al turismo accessibile: si possono effettuare safari, escursioni in sidecar e visitare molti luoghi in piena libertà. I nuovi edifici vengono costruiti in modo che siano accessibili per tutti e, di conseguenza, viene poi da sé che lo siano anche per i rotellanti.

E l’Irlanda che, nonostante la crisi economica, tenta di salvaguardare il più possibile le conquiste ottenute in ambito sociale. Cosa che in Italia non accade, perché dobbiamo ancora raggiungere certi traguardi e allora mi chiedo perché gli anglosassoni hanno questa spiccata sensibilità verso l’integrazione del diverso mentre noi non riusciamo a fare in modo che tutti abbiano le stesse opportunità e diritti.

Fabrizio Marta

rotellando.vanityfair.it

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“Torino Paratour”: itinerari turistici per i non vedenti e i disabili in carrozzina

Torino Paratour“Torino Paratour” è un itinerario turistico unico nel suo genere, ideato per far conoscere le bellezze del capoluogo subalpino ai non vedenti e ai disabili in carrozzina, attraverso i decori che caratterizzano l’architettura della città.  Scopriamo come è nato questo progetto con il suo ideatore, Raffaele Palma, presidente del CAUS (Centro Arti Umoristiche e Satiriche) di Torino.

Come e quando è nato il progetto “Torino Paratour”? 

“Torino Paratour” è nato per ricordare un caro amico, Gianni Pellis, affetto da sclerosi multipla e scomparso nel 2011. Il progetto però ha preso forma e concretezza solo a Febbraio di quest’anno e le difficoltà sono state molte e spesso difficili da superare, proprio come le barriere architettoniche!

A chi si rivolge?

“Torino Paratour”, pur rivolgendosi a tutti, è stato ideato per i portatori di disabilità motoria e visiva, come ciechi e ipovedenti.

Sulla base di quali parametri ha individuato gli itinerari proposti? Di quali criteri ha tenuto conto?

Da anni mi occupo di realizzare tour in Torino e Piemonte che evidenziano fregi, decori e abbellimenti architettonici. Per realizzare gli itinerari di “Torino Paratour” ho dovuto cercare decori e fregi a portata di mano (non troppo alti), assai plastici (per essere sentiti con il tatto), vicini l’uno all’altro, affinché i tour non risultassero troppo lunghi e dispersivi. Infine, cosa più importante, ho dovuto tenere conto di percorsi su marciapiedi privi di barriere (con piano abbassato), possibilmente su tragitti in isole pedonali e con possibilità di riparo in caso di pioggia. Non è stato facile individuare tutte queste prerogative e unirle in tour che analizzassero decori solo barocchi e neoclassici oppure in stile déco e liberty.

Quali sono i punti di forza di “Torino Paratour”? Quali elementi lo contraddistinguono da altre proposte simili? 

Credo che “Torino Paratour” sia un progetto innovativo e unico nel suo genere. Gli itinerari sono stati pensati per essere esplorati all’esterno di case di civile abitazione, di palazzi di particolare pregio o edifici d’interesse storico, artistico e monumentale. Sono percorsi che si sviluppano sui marciapiedi della città, fruibili in qualsiasi momento della giornata e in qualsiasi periodo dell’anno, a differenza dei tour per portatori di disabilità appositamente creati presso le gallerie d’arte, i musei o alcune aree cittadine. Percorsi che servono a comprendere e analizzare i vari stili artistici che si sono succeduti nel corso dei secoli, ad apprezzare e valutare dettagli che sfuggono alla maggioranza delle persone.

“Torino Paratour Grottesco” e “Torino Paratour Liberty”… ci illustra gli itinerari nel dettaglio?

“Torino Paratour” è costituito da tre tragitti strutturati ad hoc, con differenti tempi di percorrenza, consultabili e scaricabili gratuitamente dal sito www.caus.it, alla pagina http://www.caus.it/torino-piemonte-tours.shtml. I tragitti, che si snodano tra ornamenti architettonici rigorosamente da toccare, capire, usare, sono corredati di mappa con traccia degli spostamenti, foto e numeri civici per gli accompagnatori-guide. Il traduttore, ad inizio pagina, consente di ottenere il testo in tutte le lingue; il link a Google Maps permette invece di entrare nel dettaglio delle vie e di stimare in metri e tempi ciascun percorso.

Per quanto concerne nello specifico i percorsi, il primo itinerario sui decori grotteschi, di circa due ore, è ideale nelle belle giornate, quando è possibile utilizzare i marciapiedi e le aree pedonali del centro. Il secondo, della durata di un’ora abbondante, è da percorrere sotto i portici per ripararsi dalle intemperie, in caso di mal tempo.

Lungo i due tragitti, tutti i marciapiedi e attraversamenti stradali sono privi di barriere architettoniche e i fregi sono posizionati ad altezza di ragazzo (le maniglie delle porte, i battagli dei portoni, i paracarri degli androni, ecc.). I decori, oggetto del tour, sono di metallo, legno, cemento ed hanno la forma di mascheroni grotteschi, figure mitologiche e musi d’animali.

Il terzo percorso, “Torino Paratour Liberty”, ha invece come oggetto gli splendidi dettagli architettonici in stile Liberty e Déco della nostra città. Quest’ultimo tour offre l’opportunità di scoprire un variegato mondo di splendide espressioni creative, permettendo di valutare bellissime effigi di metallo, forgiate per i lucernai delle cantine o per le maniglie degli ingressi pedonali; e ancora figure lignee che ornano porte e portoni e sagome in conglomerato laterizio, usate come fregi su molte facciate. Un panorama variegato di Liberty, ispirato perlopiù a sagome floreali, a foglie, a tralci e bacche di pura fantasia. Non manca neppure la sagoma di qualche strano animale stilizzato, in autentico stile déco.

Un progetto quindi che consente alle persone con disabilità di vivere e ammirare le bellezze architettoniche ed artistiche del territorio. Gli enti locali e/o le associazioni di disabili l’hanno supportata in questa iniziativa?

I siti della Pubblica Amministrazione, in particolare quelli del Comune, della Provincia e della Regione hanno dato ampio risalto al progetto “Torino Paratour”.

Ma, volendo, potrebbero fare ancora di più… come collocare gli itinerari nelle loro pagine riservate al turismo.

I siti inerenti agli Assessorati al Turismo ed alla Cultura poi rimandano spesso, per la visione di contenuti, alle applicazioni di ultima generazione, quali Android, iOS, ecc.  Ecco, visto che il CAUS non dispone di un budget che permette di costruire i contenuti web attraverso tali applicazioni, sarebbe meraviglioso se un’associazione, un’azienda, un ente, o perché no, un privato, potesse farsi carico di questa spesa!

Arrivare a definire ogni dettaglio dei percorsi di “Torino Paratour” è stato un processo lungo, laborioso ed impegnativo. Dare ancora maggiore risalto e visibilità all’iniziativa non significherebbe esaltare l’impegno di un singolo, il sottoscritto, bensì raggiungere altre persone che si occupano di disabilità e della creazione di tour artistici, affinché possano partorire nuove idee, migliorare alcuni aspetti o progettare altri itinerari cittadini, al fine di rendere la “conoscenza” del bello, dell’arte e dell’architettura veramente accessibile a tutti.

Per quanto riguarda, invece, le associazioni di persone con disabilità, devo dire che, ad eccezione di alcune, hanno risposto con molto meno entusiasmo. La ragione, credo, è nel fatto che problematiche più urgenti ed importanti hanno giustamente precedenza e priorità nella loro vita quotidiana. Penso inoltre che ogni associazione si occupi di temi specifici, spesso univoci ed escludenti, quali sport, integrazione, hobby; sono pochi i siti specializzati in disabilità che trattano d’itinerari d’arte ed architettura urbana. Le molteplici differenziazioni e categorie di disabilità rappresentano poi un’ulteriore difficoltà di pertinenza; se “Torino Paratour” risulta essere d’esclusivo interesse per le persone cieche o in carrozzina, tutti gli altri portatori di disabilità (non udenti, disabilità psichiche, ecc.), non considerano il progetto interessante.

Ha già ricevuto dei riscontri, invece, da chi ha percorso gli itinerari? Magari qualche suggerimento o critica…

Sì, ne ho ricevuti. L’Unione Italiana Ciechi ed Ipovedenti – Sezione Provinciale di Torino, nella persona del suo Presidente Enzo Tomatis, è stata tra le primissime associazioni a contattarmi per complimentarsi dell’iniziativa ed aderire ai tour, seguita dal Centro Regionale Documentazione Non Vedenti della Città di Torino.

“Torino Paratour” l’avrà sicuramente fatta riflettere sul problema dell’accessibilità in generale. Che idea si è fatto? Quanto c’è ancora da fare?

Ho riflettuto soprattutto sulla disabilità in generale, visto che ne ho avuto esperienza diretta in famiglia. È stata una vicenda tragica, non solo nel mio vissuto di familiare, ma anche nel rapporto con alcune figure mediche, assistenziali e giuridiche, davvero carenti sotto ogni profilo. Poi c’è stata la lunga amicizia con Gianni Pellis, dal quale ho attinto un po’ di quell’entusiasmo, iniziativa e spirito pionieristico, che in alcuni momenti della mia vita mi sono mancati.

Per quanto riguarda invece il tema dell’accessibilità, mi sto rendendo conto che, invecchiando, anche un minimo ostacolo che prima non consideravo, oggi può essere causa di intralcio, inciampo, impedimento. L’accessibilità riguarda tutti, archistar compresi!

So, tra l’altro, che ha in programma di pubblicare sul sito del CAUS anche delle segnalazioni inerenti la mobilità cittadina. Ci può spiegare meglio…

Su questo punto ho avuto mille ripensamenti! Poi ho ritenuto che solo le segnalazioni di mobilità cittadina provenienti dai siti ufficiali di Comune, Provincia e Regione potessero dare la giusta garanzia nel caso di comunicazioni su interruzioni, marciapiedi dissestati, chiusure di aree o, viceversa, nel caso di segnalazioni relative all’inaugurazione di nuove zone pedonali, servizi per portatori di disabilità, ecc.

E così nella pagina del nostro sito dedicata a “Torino Paratour” c’è la possibilità di scaricare le mappe dal link geoportale della Città di Torino: quella relativa al progetto “accessibilità delle persone – infrastrutture ipovedenti” e quella “accessibilità delle persone – evoluzione abbattimento barriere architettoniche”.

Un’ultima domanda. A “Torino Paratour Grottesco” e “Torino Paratour Liberty”, pensa di affiancare in futuro altri itinerari? Ha già qualche idea in proposito?

Sì, è già a buon punto la catalogazione fotografica relativa a “Torino Paratour Razionalista e Contemporanea”, per cui dovremo individuare e definire un nuovo percorso che si snoderà tra i decori dell’architettura dal 1930 sino ad oggi. Un nuovo tour reso possibile grazie all’aiuto di alcuni amici che mi hanno sempre supportato: Piero Ferraris, Tullio Macrì e Norberto Tosetti.

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Albergo Etico: un albergo, una scuola, una casa e… un futuro!

Albergo_Etico

Albergo Etico è la dimostrazione di come sia possibile conciliare impresa sociale e business, ed è la prova di come si possa ribaltare il concetto di assistenza al disabile, che da fruitore del servizio turistico ne diviene il gestore. Antonio De Benedetto, Presidente di Albergo Etico, e Andrea Cerrato, Segretario di Albergo Etico e Assessore all’Agricoltura, Turismo, Commercio e Attività Produttive del Comune di Asti, ci illustrano questo straordinario e innovativo metodo di formazione attiva.

Quando e come è nato il progetto Albergo Etico?

Il progetto è nato nel 2006 per rispondere ad un’esigenza specifica, ovvero permettere a Niccolò Vallese, un ragazzo affetto da sindrome di down, di terminare il percorso di studi della scuola alberghiera. Inserito come stagista presso il ristorante Tacabanda di Asti, Niccolò ha compiuto, in pochi mesi, una vera e propria trasformazione, cambiando completamente le prospettive della sua vita e quelle della sua famiglia. Grazie alla sensibilità (e follia) di un gruppo di amici e imprenditori, senza esperienze lavorative o vissuti familiari in questo specifico ambito, è nato così Albergo Etico, un percorso e progetto formativo che dai fratelli De Benedetto, i gestori del Tacabanda, ha coinvolto man mano altre strutture ricettive. È così il sogno di far uscire dall’anonimato decine di ragazzi e far rinascere le loro famiglie sta diventando, poco per volta, realtà!

Si tratta di un progetto che ribalta completamente il concetto di assistenza al disabile, visto che i ragazzi stessi sono parte attiva nella fase di accoglienza al turista. È stato difficile far passare questo concetto?

È stato necessario, e lo è ancora, far cambiare prospettiva, non solo trasmettere un concetto. Quando presentiamo il nostro progetto, in Italia e nel mondo, la prima cosa che diciamo è che “Albergo Etico non è volontariato, non è assistenzialismo, ma un progetto imprenditoriale”. Solo in questo modo l’approccio è diverso, come è giusto che sia. In caso contrario, continueremo ad alimentare centri (spesso parcheggi!) che poco o nulla danno alla società, e che forse servono solo a scansare il problema. La nostra idea è diversa. Sappiamo che esistono disabilità e patologie completamente diverse tra loro, sappiamo che ogni ragazzo deve compiere un suo percorso e che i risultati possono essere completamente differenti l’uno dall’altro, ma allo stesso tempo siamo consapevoli che il disabile rappresenta una risorsa e non un costo. È necessario operare quel salto che anziché farci chiedere quanto costa allo stato un mese in un centro di assistenza o di recupero, ci porti a domandare quanto e cosa può dare un ragazzo disabile inserito nel mondo del lavoro. Questo è il cambio di prospettiva.

Quanti sono, ad oggi, i ragazzi coinvolti e con quali disabilità?

Ad oggi, i ragazzi coinvolti nel progetto sono ventisei. Provengono da tutta Italia (ma il gruppo piemontese è molto folto) e alcuni sono affetti da sindrome di down, altri presentano una disabilità intellettiva con ritardo cognitivo, altri ancora sono affetti da cecità e ipovedenza.

In che modo le strutture in cui lavorano i ragazzi sono state coinvolte nel progetto? Hanno aderito spontaneamente?

C’è stato un grande lavoro sul campo… il successo dell’inserimento di Niccolò nel ristorante Tacabanda, l’impegno della Presidenza del Consorzio Turistico Asti e Monferrato e dell’Associazione Gente & Paesi Onlus ad inserire i ragazzi nei progetti istituzionali hanno piano piano contaminato e contagiato l’intera città. Certo, c’è ancora molta paura da parte degli imprenditori ad accogliere i ragazzi all’interno delle loro strutture. Paura che nasce, da una parte, dalla mancanza di conoscenza e, dall’altra, è figlia di certe lungaggini burocratiche. Per questo, nei prossimi mesi andremo a codificare un metodo (download) che sarà la sintesi di anni di lavoro, di test o meglio di tentativi. Non siamo medici, abbiamo accettato insieme alle famiglie una sfida, abbiamo fatto un percorso con loro. Non sappiamo dare risposte tecniche a quanto è successo, sappiamo che è stato un percorso lungo, impegnativo con risultati eccezionali. Ora con il metodo tutto sarà più facile, sia per aderire al progetto, sia per replicarlo altrove.

In futuro, pensate di inserire i ragazzi anche in strutture diverse da quelle ricettive?

La chiave di lettura è fornire a questi ragazzi gli strumenti per gestire in modo autonomo la propria vita. L’Albergo Etico è un metodo di formazione attiva per il raggiungimento dell’indipendenza e dell’autonomia personale attraverso ciò che c’è di più professionalizzante e vicino ad una casa, ossia l’albergo. Il primo obiettivo è consentire a questi ragazzi di diventare persone libere e capaci di apprendere; solo in questo modo si possono predisporre tutti quegli strumenti di legge che consentono ai ragazzi il collocamento sgravato ed agevolato per esistere e trovare la propria strada nella società civile come lavoratori, volontari, cittadini indipendenti.

Quali ricadute ha avuto il progetto sulle famiglie dei ragazzi e sull’intero territorio?

Straordinarie… si sa che molto spesso l’handicap viene “trasferito” ai genitori che vivono la disabilità del figlio con impotenza e sensi di colpa… ebbene, la grande famiglia che si generata è attenta e sostiene i genitori nel loro percorso di vita con pennellate di allegria e sincera condivisione che finiscono per annullare quel grigio di base, sinonimo di frustrazione e senso di inadeguatezza. La disponibilità e il piacere da parte di tutte le persone nel raccogliere la sfida dell’integrazione ha regalato una marcia in più al team cittadino… e questo in campo turistico è fondamentale! Non dimentichiamoci poi che Albergo Etico è un progetto imprenditoriale e come tale può determinare (e in parte l’ha già fatto) un incremento di fatturato, attrarre investimenti e persino generare un mito, quello della “città etica europea”!

Perché in Italia si pensa ancora che impresa sociale e business siano incompatibili? 

Perché il sistema di base è cresciuto generando orticelli, interessi economici e politici tali che una buona idea muore per invidia o per squallidi interessi. Perché manca un metodo per far sì che il businnes, il social businnes e le persone disabili si formino sullo stesso modello strategico, si incontrino in modo stimolante e proseguano un naturale percorso insieme.

Quanto ha contribuito la collaborazione sinergica tra i diversi soggetti, formazione professionale, strutture ricettive e pubblica amministrazione, al successo del progetto?

Il progetto sta avendo successo perché un gruppo di persone ha deciso di rompere gli schemi. È chiaro che l’interazione costruttiva tra i diversi soggetti è stata fondamentale, ma senza le persone il progetto non sarebbe mai partito. C’è ancora una grande rigidità mentale degli imprenditori e burocratica delle amministrazioni. Ma ormai il percorso è avviato, dirompente. E faremo di tutto per far sì che il centro studi “Albergo Etico” rimanga ad Asti, e che proprio Asti diventi il primo esempio virtuso di città etica. Detto ciò, la priorità sono i ragazzi, per cui se troveremo un ambiente più ricettivo non ci penseremo due volte!

Il traguardo più importante che avete raggiunto e i vostri prossimi obiettivi

Il traguardo più importante che abbiamo raggiunto è constatare come tutti i giorni possiamo contribuire al cambiamento sociale del nostro Paese, traguardo che lo stesso Parlamento Europeo ci ha riconosciuto, consegnandoci, lo scorso anno, il “Civi Europaeo Praemium”, ovvero il Premio del cittadino europeo. L’inaugurazione del primo Albergo Etico, ovvero una struttura alberghiera 4-5 stelle con ristoranti, beauty farm, servizi commerciali, ecc… è invece il nostro prossimo obiettivo, il punto di arrivo non per noi ma per la società. La realizzazione dell’Albergo Etico significherà aver raggiunto un’apertura mentale nuova e un nuovo approccio alla vita. Se il concetto di “accessibilità totale di una città” è un concetto per certi versi utopistico, la creazione di un albergo di classe superiore totalmente accessibile e gestito da disabili è un’opportunità facile da raggiungere. Parliamo tanto di crisi, ma visto che in Europa il potenziale dei turisti disabili è di oltre 80 milioni di persone, non sarebbe il caso di discutere di imprenditorialità?

Per concludere, una storia che vi ha particolarmente colpiti

La storia di una mamma che odiava Asti per via della sindrome del figlio. Vittima della depressione, questa donna è diventata una colonna dell’associazione, trovandovi tanti amici con cui condividere la straordinaria normalità di un figlio che tutti i giorni ci insegna i valori della vita, e che da quando è nata la piccola Emy (figlia di uno degli esercenti coinvolti nel progetto) si diverte a fare il baby sitter.

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Turismo accessibile: turismo per tutti

Turismo Accessibile e Piemonte for All 2“Il viaggiatore con disabilità non ha paura. È sospettoso, minuzioso, magari. Ma accetta il rischio. È pronto a qualche aggiustamento ragionevole rispetto alle abitudini preziose che lo tranquillizzano nel proprio habitat. È quasi il turista ideale, perché desidera fortemente il viaggio, per poterlo centellinare, riempire di esperienze, raccontare e disseminare al ritorno. Offrire opportunità di turismo in piena accessibilità non è solo un’azione corretta dal punto di vista dei princìpi universali sanciti dalla Convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità. È soprattutto un’operazione imprenditoriale intelligente, lungimirante, carica di vantaggi, anche economici”. Sono questi, nelle parole del giornalista Franco Bomprezzi, i fondamenti della ricerca “Turismo accessibile e Piemonte for all”, presentata il 14 Giugno nell’omonimo convegno organizzato dalla Consulta per le persone in difficoltà e dalla Regione Piemonte, presso le Officine Grandi Riparazioni di Torino.

Moltissimi gli spunti di riflessione emersi dal convegno; in particolare, l’analisi degli operatori presenti ha messo in luce la necessità di coniugare e intrecciare il concetto di accessibilità con quelli di qualità e ospitalità. Ciò significa che l’accessibilità va intesa non solo in termini di adeguamento normativo, ma come elemento di qualità per le strutture e il territorio, secondo il principio che “ciò che è accessibile è più comodo per tutti”. Parlare di turismo accessibile significa quindi lavorare sulle leve dell’informazione/comunicazione, dei trasporti, dell’accoglienza/ospitalità, della formazione. È inutile abbattere una barriera se non lo si comunica; è inutile parlare di accessibilità se la persona con disabilità non riesce ad arrivare a fruire di un servizio; è inutile mettere una rampa o eliminare uno scalino in una struttura ricettiva se il personale non è adeguatamente formato e attento ai bisogni e alle esigenze delle persone diversamente abili. Gli operatori del settore turistico devono iniziare a considerare la disabilità non come un “problema da gestire” bensì come una semplice espressione della complessità umana da considerare, conoscere e soddisfare in modo concreto e professionale. Questo principio è perseguibile solo se si è disposti come persone e, come operatori, ad accettare e confrontarsi con la complessità del tema capendo che nulla si può fare senza la conoscenza delle persone con disabilità e soprattutto senza la volontà di una piena comprensione delle specifiche esigenze e il loro inserimento al centro del processo turistico. Di una città – scriveva Italo Calvino – non godi le sette o le settantasette meraviglie, ma la risposta che dà ad una tua domanda: le persone con disabilità chiedono che venga riconosciuto il loro pieno diritto di scoprire, divertirsi, conoscere e confrontarsi con un territorio, domanda che la filiera turistica non può più eludere!

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“Abbattiamo le barriere”: il progetto della Circoscrizione Due del Comune di Torino

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La Circoscrizione Due (Santa Rita – Mirafiori Nord) del Comune di Torino sta lanciando un progetto pionieristico, ovvero mappare – grazie ad una squadra di volontari – tutte le barriere architettoniche del quartiere, per renderlo realmente accessibile a tutti. Parliamo di questa significativa iniziativa con la Dott.ssa Raffaella Perrone, Coordinatrice della II Commissione Consiliare della Circoscrizione Due. 

Com’è nato il progetto? Quali sono i vostri obiettivi?

Il progetto è nato dal basso, dalle richieste di un gruppo di cittadini attivi nei comitati spontanei di quartiere e sensibili all’argomento. Determinati, pervicaci e dotati di un forte senso civico, questi cittadini mi hanno contattata e sottoposto la questione: mappare il territorio, rintracciare i percorsi accessibili e abbattere le barriere. Spesso, l’inefficienza della pubblica amministrazione risiede nel fatto che i diversi settori non agiscono all’unisono, che non si scambiano le informazioni, che procedono come monadi e chi ne paga le spese, purtroppo, sono i cittadini con una mobilità ridotta. Per questi motivi, ho deciso di convocare un “tavolo tecnico abbattimento barriere”, a cui hanno partecipato cittadini, tecnici e istituzioni.

Quali sono le principali difficoltà che avete riscontrato o che riscontrate nella realizzazione del progetto?

C’è una scarsa attenzione alla tematica dell’accessibilità, come se tutti fossero in grado di muoversi in autonomia, ma la percezione sta cambiando e questo grazie anche all’impegno di persone come i rappresentanti dei comitati spontanei, ma non solo. In questo ultimo anno, infatti, ho avuto la fortuna di conoscere persone incredibili, singoli cittadini o associati, che sono riusciti ad abbattere barriere, a rendere accessibili luoghi fino a quel momento ad esclusivo appannaggio dei “normalmente” abili. Ad essere sincera, abbiamo riscontrato anche alcune difficoltà ad attivare il tavolo per l’abbattimento delle barriere, difficoltà di ordine burocratico. I funzionari della pubblica amministrazione con cui parlavo non sapevano come muoversi: non avevano mai dovuto scrivere una determina che ufficializzasse la nascita di un tavolo a cui si sarebbero seduti, con lo stesso diritto di parola, tecnici comunali e liberi cittadini. È stata dura, ma alla fine ce l’abbiamo fatta!

Avete coinvolto altri enti/associazioni del territorio? A quale titolo?

Sì, come ho accennato prima, abbiamo riunito attorno al tavolo tecnico le associazioni di disabili, cittadini liberi e associati non necessariamente disabili e diversi settori comunali ovvero il suolo pubblico, la viabilità, il verde pubblico, l’agenzia trasporti urbani, i servizi sociali. Grazie al tavolo, i diversi settori hanno incominciato a coordinarsi tra loro e a lavorare in maniera sinergica, scoprendo che l’unione permetteva di abbattere le barriere più in fretta e risparmiare denaro pubblico! Ad esempio, l’agenzia di trasporti pubblici ha iniziato ad interfacciarsi con il settore viabilità, per cui mentre GTT effettuava la mappatura delle proprie fermate per capire quali erano accessibili o meno, la viabilità cercava di capire come arrivare alla fermata camminando lungo marciapiedi che fossero conformi alla normativa e forniti di scivoli! Il tavolo è stata un’occasione unica, altrimenti tutto sarebbe rimasto velleitario e privo di senso: come si può dire che una fermata del bus è accessibile se non puoi arrivarci?

Chi si occuperà della mappatura delle barriere architettoniche?

I volontari formati dai tecnici dell’ufficio tecnico circoscrizionale. Un piccolo esercito fatto di scout, giovani e pensionati, pronti a segnalare il cartello che impedisce il transito della mamma con il passeggino, la ghiaia che rappresenta uno stop per la sedia a rotelle, ecc.

Sulla base di quali criteri i volontari effettueranno le segnalazioni?

Il tavolo ha lavorato duramente per creare delle schede di facile comprensione per i volontari “profani” e non necessariamente in possesso di un diploma da geometri! Queste schede, già testate da un gruppo di cittadini, riproducono ogni singolo incrocio del quartiere e sono state realizzate in modo da poter rilevare ogni informazione inerente allo stato dell’incrocio e alle barriere. Ad esempio, se c’è o meno lo scivolo, se la pendenza è a norma e quindi una persona in carrozzina può accedervi da sola, se ci sono buche, se c’è il loges che permette ai non vedenti di comprendere la presenza di un attraversamento, se il materiale che caratterizza lo scivolo è a norma o se invece al posto del cemento c’è il porfido che impedisce ai diversamente abili di transitare in autonomia, se ci sono bidoni della raccolta differenziata a ridosso degli incroci, se i cestini della spazzatura sono a portata di carrozzina e di bambino o se invece, come spesso accade, sono a portata di “giocatore di pallacanestro”. Abbiamo creato anche una scheda specifica per i parchi e le aree giochi della città. Nessuno ci pensa, ma i diversamente abili non hanno forse il diritto di recarsi in un’area verde? E invece nei parchi spesso manca un accesso all’area giochi oppure gli arredi urbani non sono a norma. Faccio alcuni esempi: i tavoli sono posizionati in modo tale da non consentire alle carrozzine di avere spazio sufficiente e così i diversamenti abili non possono sedersi con gli altri per fare un pic-nic o una partita a carte, le panchine all’ombra sono spesso posizionate in mezzo al prato senza alcuna possibilità di accesso, ecc.

In futuro, il progetto sarà esteso alle altre circoscrizioni del Comune di Torino?

Questo è l’obiettivo! Il nostro sogno è quello di abbattere tutte le barriere, contagiare la città, la regione, il paese, il mondo. Abbiamo gettato il sasso in una pozza e adesso vogliamo vedere attorno al sasso dei cerchi concentrici sempre più larghi! Certo, siamo consapevoli del fatto che rendere tutto a norma è molto costoso, ma l’esperienza del tavolo ci ha anche insegnato che spesso bastano piccoli accorgimenti per rendere un luogo accessibile, ovvero un maggior coordinamento tra i diversi settori e il saper lavorare in maniera efficiente, sfruttando al meglio le risorse disponibili.

Perché oggi, per un’amministrazione comunale, l’abbattimento delle barriere architettoniche è più un costo che una risorsa?

Forse è sempre stato così per una motivazione poco “nobile”: i diversamente abili non hanno mai rappresentato un “potere forte”, dunque perché ascoltarli? Ma, fortunatamente, la trasformazione è in atto e questo grazie all’impegno e alla fortissima determinazione di chi non si fa – scusate il gioco di parole – abbattere mai! Ed è proprio grazie alle “pressioni” provenienti dal basso, da chi vive in condizioni di difficoltà di accesso, che le amministrazioni pubbliche, nonostante le difficoltà economiche del momento, stanno affinando la loro sensibilità rispetto al tema.

Un suo appello per reclutare nuovi volontari

Uniamo le forze! Contribuiamo a rendere accessibile il nostro quartiere perché abbattendo le barriere architettoniche possiamo abbattere quelle mentali! Contattateci ai numeri 011 4435271011 4435250011 4435252 oppure scrivete a informa2@comune. torino.it per avere maggiori informazioni. Ognuno può collaborare in base alla propria disponibilità, anche solo per un giorno, ma più siamo più in fretta mappiamo!

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due semplici storie di sport…

In questi giorni ho incontrato due storie opposte ma con in comune il fattore “sport”.

matt hampson

La prima riguarda Matt Hampson, un rugbysta di soli 27 anni che durante un allenamento, 7 anni fa, ha subito una frattura alle vertebre cervicali che gli hanno causato una perdita nell’uso degli arti. Hampson, in un articolo al Daily Mail ha raccontato che per consolare il padre, durante il ricovero, gli disse pur non credendoci: “Questo potrà far di me una persona migliore” Ma ora, guardandosi indietro, pensa che davvero questo l’abbia reso una persona migliore e riesce anche a scherzarci sopra “Ho dovuto rompermi il collo per iniziare a usare il cervello”. Hampson ha fondato un’associazione che raccoglie fondi da destinare ad altri atleti che abbiamo subito incidenti altrettanto gravi www.matthampson.co.uk.

Circa un anno fa avevo duramente contestato il termine “diversamente abile” in quanto, a mio parere falso e teso solo a far sembrare positiva una situazione, quella dell’handicap, che di positivo ha ben poco. Ma Anthony Bagliano, la seconda storia, mi dimostra che in alcuni casi la diversa abilità c’è o si sviluppa. Diciannovenne, calciatore della selezione americana di football e uno dei migliori calciatori under 20 degli States, Anthony è affetto dalla sindrome di Holt Oram, che causa gravissimi deficit cardiaci e una quasi totale assenza delle braccia. Non per questo ha rinunciato a praticare uno degli sport più fisici, visto che i suoi piedi sanno calciare alla perfezione e il ragazzo è dotato di un equilibrio straordinario. In un’intervista rilasciata a Giovanni Marino per Repubblica http://marino.blogautore.repubblica.it/2013/04/09/la-forza-di-anthony-il-kicker-senza-braccia-che-prende-a-calci-la-sfortuna/ dichiara “Ovviamente so bene che non sono come gli altri, ma riesco ugualmente a fare tutto perchè anche i disabili possono raggiungere gli obiettivi che si prefiggono”. E capisci la sua forza quando ti racconta che sulla maglia porta il numero 2 “Perchè mi ricorda che, se non lavoro ogni giorno duramente, sarò sempre il numero 2″.

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Anche lui è impegnato nel sociale con l’associazione Kicking for a Cure, che raccoglie fondi per la ricerca sul cancro, malattia che ha colpito il padre di Anthony Bagliano http://www.kickingforacure.org/

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Intervista a Martina Caironi

Martina Caironi - Paralimpiali Londra 20122 Novembre 2007: un’auto pirata travolge la moto di Martina Caironi. Martina sopravvive ma subisce l’amputazione alto-femorale della gamba sinistra. In questa intervista, l’atleta bergamasca ci racconta come ha trovato la forza di ricominciare dopo l’incidente e come è arrivata a vincere l’oro nei 100 metri T42 alle Paralimpiadi di Londra 2012. 

 

Martina, ripensi mai al giorno dell’incidente?

Ormai mi capita raramente di ripensare a quel giorno, magari mi succede in occasione degli anniversari del mio incidente o quando vedo per strada quelli che guidano come pazzi.

Come e dove hai trovato la forza di ricominciare?

La forza l’ho trovata dentro di me, grazie alle persone che mi sono state accanto (i miei, i miei amici…) e mi han fatto sentire il loro amore, il loro affetto. In quei momenti non sentirsi soli è fondamentale. Come lo è capire che non è un pezzo in meno del tuo corpo a renderti meno importante o bella, e che, se ci pensi un attimo, una volta guarita, è lo spirito, l’umorismo, il sorriso che ti permettono di star bene.

Quanto ti ha aiutata la passione per lo sport dopo l’incidente?

La passione per lo sport che non era l’atletica è stata prima una pugnalata al cuore, poi una rampa di lancio. Inizialmente non riuscivo ad accettare con serenità di non poter più fare pallavolo, mi mancava e non riuscivo ad andare a vedere le partite delle mie ex compagne; avrei tanto voluto riprendermi la mia agilità ma non potevo. Poi ho scoperto che avrei potuto riprendermi un altro tipo di abilità, con uno strumento, con una protesi. Pian piano mi son cimentata nella corsa e dopo un anno mi è nata quella passione che mi ha portata fin qui.

Che cosa ti ha spinta a provare a correre?

Mi ha spinta il desiderio di provare a misurarmi con qualcosa di nuovo, la curiosità di conoscere un territorio così inesplorato, la voglia di sudare e sentire il vento in faccia che rinfresca, la necessità di sentirmi ancora capace di qualcosa di così importante come la corsa, che impari già da quando sei così piccolo.

Chi sono Berta e Cheeta? Due nomi curiosi, tra l’altro….

Sono le mie due protesi, la prima è quella per camminare, simpaticamente rinominata dalle mie amiche il primo anno che ne ho avuta una, così, per sdrammatizzare e farsela “amica”. Cheeta è un nome che ho preso dalle protesi di Pistorius, in quanto si chiamano proprio così nel termine tecnico (letteralmente si tratta di una specie di ghepardo che va velocissimo appunto), ma dato che ne sto cambiando una dietro l’altra non saprei più come chiamarla… ci penserò…

Che cosa hai provato la prima volta che le ha indossate?

La prima volta che ho provato quella per camminare mi son sentita sospesa, come in balìa di un qualcosa di cui avrei dovuto imparare a fidarmi, poi dopo poco già la cosa funzionava.

Con quella da corsa la questione era più tosta perchè non solo dovevo fidarmi di un ginocchio e di un piede diversi, ma dovevo imparare a farlo ad “alta” velocità, dove uno sbaglio ti fa cadere praticamente subito.

Berta e Cheeta ti hanno portata alle Paralimpiadi. Quanto è stato difficile il cammino?

Il cammino è stato sì difficile ma anche piacevole ora che ci ripenso, perché ho alternato nella mia vita varie attività che mi hanno fatto sentire meno il “peso” di avere una disabilità, anzi diciamo che ho integrato questa mia nuova condizione nella mia vita a tal punto da rendere tutto naturale. La prima fase è infatti l’accettazione, e appena l’ho capito ho cercato di lavorarci sopra. La mia gamba non me l’avrebbe restituita mai nessuno quindi l’unica cosa da fare era costruire sopra quello “rimasto”, e comunque con tutte le tecnologie di cui ho potuto usufruire e di cui usufruirò in futuro devo dire di potermi assolutamente lamentare.

E lungo questo percorso, ti sei mai sentita discriminata o vittima di pregiudizi?

Ho avuto gli occhi addosso in varie occasioni, ho sentito i mormorii di chi diceva “guarda quella” o cose così, ma dopo i primi tempi mi son fatta forza e ho imparato a sorridere di fronte a chi non vuole vedere la PERSONA ma il DISABILE, non sanno cosa si perdono. Nella diversità c’è la ricchezza.

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Intervista a Franco Bomprezzi

Franco BomprezziIntervista a Franco Bomprezzi, giornalista per il Corriere della Sera (scrive sul blog “InVisibili“) e per il magazine non profit “Vita”. Portavoce di Ledha, la Lega per i diritti delle persone con disabilità, Bomprezzi è anche direttore responsabile del portale Superando.it 

 

Ad Aprile dello scorso anno, aveva rinunciato all’incarico di consulente del Comune di Milano sui temi della disabilità. Perché adesso ha deciso di candidarsi?

Avevo rinunciato perché il mio ruolo di consulente esterno non consentiva, nel concreto, una piena assunzione di responsabilità a tutto campo, sui temi che mi stanno a cuore. La macchina amministrativa è complessa e richiede tempo pieno, un mandato preciso, una strumentazione adeguata all’incarico. Non c’erano e non ci sono ragioni di dissenso rispetto all’operato dell’amministrazione milanese. Tanto che adesso, in realtà, sono spesso impegnato in campagna elettorale proprio assieme all’assessore al welfare, Pierfrancesco Majorino. La rinuncia è stata un atto di responsabilità, così come adesso la candidatura per il consiglio Regionale appartiene alla medesima logica: se sarò eletto potrò a tutti gli effetti svolgere un ruolo istituzionale chiaro e autorevole, forte del consenso dei cittadini. E lo farò molto volentieri.

Quali dovrebbero essere le priorità del prossimo governo nel welfare?

Rimettere ordine nella spesa sociale, distinguendo correttamente gli interventi per le persone non autosufficienti in quanto in età avanzata (gli anziani) dagli interventi in favore delle persone con disabilità. Si tratta di due situazioni che solo negli effetti pratici, a volte, coincidono, ma che in realtà implicano scelte diverse, sia in termini di politica della salute, che di investimento sul progetto di vita personale. Il fondo per la non autosufficienza, ad esempio, non deve essere legato a una patologia, ma a una condizione della persona, indipendentemente dalla patologia. In questo senso occorrono finanziamenti più consistenti, riprendendo quanto era stato fatto dai governi di centrosinistra, prima che venisse completamente smantellato il sostegno al fondo sociale e al fondo per la non autosufficienza. Una demolizione sistematica iniziata con Silvio Berlusconi e Giulio Tremonti e continuata con Mario Monti.

Sul tema dell’integrazione e dei diritti qual è la situazione nel nostro Paese?

Abbiamo una legislazione eccellente, invidiata nel mondo, specie per quanto riguarda l’inclusione scolastica, ma anche per il lavoro. Solo che le leggi non funzionano, e stiamo assistendo a un sostanziale arretramento rispetto a quanto avevamo faticosamente ottenuto anni fa. L’approvazione della Convenzione Onu, per quanto importante dal punto di vista simbolico e istituzionale, non si è ancora tradotta in iniziative coerenti e concrete di controllo della qualità e della appropriatezza degli interventi normativi.

Quando e dove è più difficile la vita di un disabile in Italia?

La vita di una persona con disabilità è più difficile oggi per il semplice motivo che è difficile per tutti, per i giovani, per gli adulti in cerca di lavoro, per gli anziani alle prese con una crescente povertà. Nella condizione di disabilità però si aggiungono enormi sperequazioni territoriali, nel nostro Paese. Non è la stessa cosa vivere in Lombardia piuttosto che in Calabria, in una grande città come Milano piuttosto che in paesino di montagna. E’ difficile in queste condizioni garantire i famosi “livelli essenziali” che la Costituzione, anche riformata in senso federalista, prevede come omogenei su tutto il territorio nazionale. Non a caso dei Liveas e dei Lea si parla senza metterli concretamente in azione.

Inclusione sociale lontana e ancora tanti tabù legati alla disabilità

Certo, anche se io preferirei si avesse uno sguardo lungo, con una memoria storica più attenta. Non siamo sempre all’anno zero. Ora abbiamo bisogno di riprendere in mano il presente e un’idea di futuro, ma alle spalle abbiamo molte battaglie vinte, molti traguardi raggiunti. Il tabù fondamentale è rappresentato dallo stigma sociale, dal pregiudizio che si accompagna alla disabilità, sia fisica che sensoriale o ancor più intellettiva e relazionale. C’è ancora troppa ignoranza, che genera diffidenza oppure pietismo e solidarietà generica, non processi di inclusione alla pari, che consentirebbero di affiancare ai diritti anche un bel pacchetto di doveri, come cittadini a tutto tondo.

È solo un problema di leggi o si avverte la mancanza di una cultura educativa?

L’ho appena detto. C’è bisogno di ribaltare la cultura sottosopra. Il modello imperante è quello dell’estetica, dell’efficienza, della prestazione, della velocità, del primeggiare, non del partecipare. C’è tantissimo da fare e occorrono alleanze con altri mondi, non possiamo rimanere nella nostra nicchia, alquanto protettiva, ma a volte incapace di fornirci strumenti di difesa adeguati.

Un esempio concreto di come le nuove tecnologie potrebbero accelerare l’integrazione.

La diffusione di strumenti smart di comunicazione è fondamentale per consentire un uso condiviso delle tecnologie da parte di persone con disabilità e di persone senza handicap. Lo smisurato mondo delle app, ad esempio, ha margini di sviluppo enormi e in larga misura inesplorati. Le tecnologie assistive tradizionali hanno bisogno forse di un ripensamento, e di prevedere per tempo l’impatto di nuovi strumenti immateriali di comunicazione e di produzione di beni e di servizi per tutti.

Lei è giornalista. L’atteggiamento dei mass media nei confronti della disabilità è cambiato nel tempo?

Sì, è cambiato, e non poco. Ma ancora non basta. C’è sempre un atteggiamento che ci separa dal fiume dell’informazione generalista. Il cosiddetto “mainstreaming”, di cui tanti si parla nei convegni, nella realtà ancora non si vede se non a tratti. Credo che la mia esperienza di blogger del Corriere della Sera e di Vita sia tuttora uno dei pochi esempi concreti di giornalismo non di settore, e i frutti si vedono, ma io vorrei che ci fossero molti altri colleghi, più giovani e più bravi di me, a dimostrare che si può fare ottima informazione anche in presenza di una disabilità, o semplicemente occupandosene con competenza e professionalità.

Dove e come, invece, si parla di disabilità in rete?

In rete la disabilità si sta affrancando dall’isolamento anche se ho la sensazione (spero di sbagliarmi) che nel grande mare del web si rimanga comunque ancorati alla nicchia di settore, o iperspecialistica, oppure di community esclusiva, con la conseguenza che il mondo dei cosiddetti “normali” anche in Rete fa fatica a incrociare i nostri sguardi, le nostre persone, le nostre idee.

Proprio in rete è stata lanciata una petizione per consentire alle persone con disabilità di avere una vita relazionale completa. Cosa ne pensa? 

Non posso che condividere l’idea e lo spirito di questa petizione, anche se si tratta di un campo nel quale difficilmente si possono trovare soluzioni idonee per tutti. Imporre l’amore è impossibile, mentre una piena sessualità è realizzabile a patto che ci siano le condizioni ideali e non soltanto una normativa di legge. Nel mezzo ci sono tutte le sfumature delle nostre vite, delle nostre speranze, ma anche delle nostre delusioni. La ragionevolezza, criterio seguito ad esempio negli Usa in tutta la legislazione sulla disabilità, ci dovrebbe consigliare di approfondire attentamente questo argomento per arrivare a soluzioni praticabili senza traumi e senza rischi eccessivi per l’equilibrio, anche psicologico, delle persone più fragili.

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Buon Anno!!!

Liberi di Muoversi augura a tutti…. Buon Anno!!!

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Liberi di muoversi …in passerella

Liberi di muoversi …in passerella

Liberi di muoversi ?  … da oggi anche in passerella e non solo …

L’hotel  Sheraton di Roma   è stato scenario di una suggestiva e particolare passerella “Modelle e rotelle” : una sfilata che ha visto indossatrici disabili  e non .

Ottocento gli spettatori  tra  rappresentanti della fondazione Vertical ,organizzatrice della sfilata, sponsor, istituzioni e personalità illustri del mondo della ricerca e della cultura, che il primo dicembre hanno assistito alla sfilata “unica nel suo genere”ma che ha messo in risalto  un assunto importantissimo :  “la bellezza va considerata secondo diverse prospettive”.

Nel corso della serata sono state  elette anche  le Miss Vertical  una di queste in carrozzina; le vincitrici  hanno ricevuto in premio una minicrociera nel Mediterraneo  a bordo  di una nave MSC: ovviamente le cabine assegnate saranno “cabine accessibili” da persone con ridotta mobilità visto che da anni le navi da crociera MSC  garantiscono agli ospiti disabili  vacanze cinque stelle!

Alla base di un così particolare e , ancor oggi , insolito evento  , il progetto della Fondazione Vertical    cui obiettivo primario  è quello di promuovere campagne di sensibilizzazione   a favore  delle persone disabili, della ricerca scientifica, del volontariato per migliorare la qualità della vita  di tutti.

Liberi di muoversi  -Liberi di essere- Liberi di poter essere- Liberi  di fare!!!

Di Stefania Schiavi

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